In breve

Nel 2016 abbiamo iniziato a ragionare intorno alla possibilità di rendere quello strano campo di ricerca che ha nome “archeologia filosofica” un vero e proprio spazio di elaborazione.

Nasce così il Laboratorio “archeologia filosofica”, un laboratorio nomade che realizza incontri, seminari, scritti e testi sulla via aperta da Michel Foucault con L’Archeologia dei saperi e percorsa da Enzo Melandri, uno dei grandi filosofi dimenticati del secondo Novecento.

Giorgio Agamben ha dato al vasto campo di ricerca intorno ai dispositivi di sapere e alle soglie economico-teologiche della storia occidentale il nome di archeologia filosofica, indagando le figure cardinali della “nuda vita” e dell’uso dei corpi che sono i dettati dell’antropogenesi nella replica dei dispositivi di governo.

In questa ibrida circoscrizione abbiamo cercato di muoverci, seguendo l’indicazione foucaultiana di “fare delle genealogie”, cioè di considerare per ogni dispositivo di cattura della vita, la determinazione dell’origine, il piano di consistenza e le possibilità, o potenze, di affezione.

Tra il 2016 e il 2017 abbiamo realizzato incontri nel circuito delle biblioteche di Roma, per provare un metodo che proveniva da una pratica. Abbiamo considerato il laboratorio un luogo aperto in cui indagare quella “scienza senza nome” che è l’archeologia per sondare gli intrecci e gli snodi in cui saperi, poteri e verità configurano al presente le emergenze di ciò che è stato detto e ciò che è stato scritto.

Lo sguardo genealogico secondo la direzione che gli ha impresso Nietzsche, scopre, alle spalle dei dispositivi di sapere-potere, i rapporti di forza, i conflitti, le convergenze e le tracce delle dislocazioni di valori in cui si compie e tramonta l’occidente. Si trattava e si tratta ancora una volta di risalire gli apriori storici che hanno informato le diverse epoche storiche per far emergere i rapporti tra saperi, poteri e soggettività.

L’archeologia taglia storia e filosofia riportando la prima all’archivio degli eventi singolari, delle differenze di ruolo e di stato nelle realtà del dominio e la seconda ai limiti ove si frantuma il soggetto della conoscenza e sono revocati il fondamento, gli assoluti e i sistemi di pensiero di cui la morente accademia perpetua il fantasma.
La modernità, erede di Kant e, come ha dimostrato Reiner Schürmann, della critica di Nietzsche “dentro e contro” Kant, dura nell’epoca terminale in cui il mondo è compromesso. Da questa soglia e da almeno mezzo secolo la critica del diritto, della società dello spettacolo, del capitalismo, e l’emergenza di nuovi soggetti e nuove forme di lotta, hanno inciso forme di vita e mostrato le possibilità di un “mondo altro” e di una “vita altra” in questo mondo.

Di tutto questo non si cessa di fare l’archivio e per questo il collettivo del laboratorio si è costituito in associazione, si è dotato di un sito web in cui abbiamo raccolto saggi, articoli, recensioni e scritti vari, e ha iniziato una collana editoriale presso l’editore Efesto. (https://www.edizioniefesto.it/collane/archeologia-filosofica).

Dal 2019 abbiamo promosso, presso la libreria Anomalia un ciclo di incontri, Destituzioni del potere, e abbiamo partecipato alle iniziative del Macro Asilo con Il regno e l’utopia. Tempi della fine e luoghi dell’altrove.

Abbiamo continuato nel 2020 e nel 2021 siamo riusciti comunque a realizzare una serie di incontri on line dal necessario titolo, La morte e le parole. Immagini e corpi dell’ultimo nemico.

Era però urgente cercare un punto di equilibrio tra la dimensione pubblica e l’elaborazione collettiva; quel punto e quel momento inevitabile ci sfuggiva: la crescente difficoltà di fronteggiare i dispositivi di governo della città e dell’ambiente, l’espressione iatro-politica del COVID e una progressiva mancanza di interesse a proseguire l’esperienza del laboratorio hanno determinato la fine dell’iniziativa. Finiva un esperimento nato nella rarità e nella dispersione attuale.

Del laboratorio non tutto è stato detto e il non detto non riguarda qualcosa di esoterico che si sottraeva alla parola, ma le concrete differenze di atteggiamenti e modi personali di entrare in relazione con un mondo rovinato che è il nostro, anzitutto. L’esperienza di questa microstoria ci insegna che i limitati momenti in cui qualcosa è in comune provengono da un noi che non si costituisce ma sta all’inizio. Il che significa che la fine del laboratorio era iscritta all’origine, senza che lo sapessimo.

Del laboratorio rimangono l’archivio e la collana editoriale e rimangono le considerazioni di chi, casomai, vorrà riprendere l’idea di una comunità di ricerca sempre possibile e mai come oggi così inattuale.

Ai nostri amici e alle nostre amiche

grazie